venerdì 14 maggio 2021

Recensione: "L'astronauta dal cuore di stagno" di Massimo Algarotti

 



Nove mesi per prepararsi ad accogliere Zoe: c'è un mondo da disegnare, da creare, una stanza da preparare con amore e perseveranza, soprattutto quando la solitudine piomba all'improvviso nella vita di Aleida.
Zoe è una bambina che nasce con gli occhi chiusi a causa di una stella filante che voleva solo abbracciarla più forte. Grazie alla vicinanza di Selima, immensa amica, di suo padre e di un nuovo compagno, Aleida scopre che il destino traccia un solco su cui la vita affonda sempre le proprie radici per costruire, in ogni caso, un futuro.


Un viaggio che porta con sé Santa Lucia, Caravaggio, il Petrichor e un'Astronauta dal cuore di stagno.



Libro davvero profondo, capace di emozionare, capace di portare il lettore fin dentro la testa della protagonista, di bombardarlo di emozioni e di spezzargli il fiato. Perché questo non è un libro facile da leggere, per me almeno non lo è stato. Sapete, quando si legge un libro e dentro quel libro si trovano emozioni provate sulla propria pelle, un libro che riesce a portare a galla cose che si pensavano superate, sepolte in fondo al proprio animo, che riesce a far riprovare paure credute dimenticate, è allora che quel libro diventa un amico, una spalla, una conferma, ma anche fonte di tristezza. È esattamente questo che è successo a me leggendo “L’astronauta dal cuore di stagno” perché alcune di quelle emozioni le ho provate, in parte dimenticate, e ritrovate tra le pagine di Massimo Algarotti. La mia storia culmina con un lieto fine, fortunatamente, ma le paure non si dimenticano nemmeno di fronte al sorriso del proprio figlio, non si dimenticano vedendolo crescere e sentendosi fortunati per il dono che la vita è riuscita a portare. Ed è stato proprio grazie a quelle paure che ho provato in prima persona che sono riuscita a capire fino in fondo il dolore della protagonista.

Si tratta di un libro che percorre le emozioni che prova una donna dal momento in cui scopre la vita che sta crescendo dentro di lei, al momento in cui la nascita della figlia, quello che dovrebbe essere un momento di immensa felicità, si trasforma invece nel momento in cui deve dirle addio, sì, perché la piccola Zoe non avrà mai la possibilità di conoscere il mondo; i suoi occhi si chiudono ancor prima di venire alla luce, per non aprirsi più. È un libro davvero carico di emozioni, di dolore e struggimento e questo, secondo me, non lo rende adatto a un ampio pubblico. A me, che sono madre e che ho attraversato alcune fasi attraversate dalla protagonista stessa, ha lasciato qualcosa, ha lasciato un’impronta, ma anche un vuoto che non penso sia facile da superare per chi ha davvero provato la stessa esperienza della protagonista. Mi sono ritrovata a leggere l’ultima pagina di questo libro e a fissare il vuoto per un momento indefinito, chiedendomi come avrei potuto rendergli giustizia con una recensione degna di esso, non so se sia o meno riuscita a farlo.

Chi legge le mie recensioni sa quanto ci tenga all’onestà, quindi devo mettere un attimo da parte l’emozionalità e parlarvi anche di ciò che non mi è piaciuto così tanto. Sono considerazioni personali e sicuramente soggettive, ma sono pur sempre cose che ho pensato durante la lettura e mi sembra giusto condividerle. La prima cosa è la scelta dell’autore di inserire qualche capitolo narrato in terza persona nonostante la narrazione del resto del libro sia in prima, dal punto di vista della protagonista. Non condivido questa scelta perché sono parti che, se evitate, non avrebbero apportato grossi cambiamenti alla narrazione, inoltre, proprio per il genere di libro, li ho trovati poco adatti. La storia narrata gira attorno alla protagonista, ma non solo, a essere messe in evidenza sono soprattutto le sue emozioni, i suoi pensieri, la sua introspezione, inserire dei capitoli in cui il lettore non si trova più a “vedere il mondo” attraverso i suoi occhi, ma si ritrova catapultato all’esterno, come a prendere distanza da tutto, non l’ho trovata una scelta utile, tutto qui.

Un’altra cosa che non ho amato è la prolissità di alcune parti. Ci sono interi capitoli che non fanno andare avanti nella storia, bensì raccontano, quasi spiegano lo stesso concetto. Ho capito l’intenzione dell’autore nel far immergere ancora di più il lettore, ma l’uso di tutti quelli aggettivi e di tutte quelle metafore – ce ne sono molte di parti così – a me ha fatto un po’ stancare. Mi continuavo a dire: “Sì, okay, ho capito… proseguiamo” e invece giravo pagina e mi ritrovavo ancora lì, nello stesso momento, con la narrazione della stessa scena o la stessa emozione ma attraverso altre parole, altri aggettivi e altre metafore. Ecco, in quei momenti avrei saltato pagine su pagine, ma non è da me quindi ho proseguito la lettura. Allo stesso tempo, è una scelta dell’autore che ho capito, non condivido perché non è nel mio stile diciamo, ma capisco ed è proprio per questo che ve ne parlo, ma vi chiedo di non farvi frenare dalle mie parole perché non si tratta di errori nella narrazione o altro, semplicemente di mero gusto personale.

Detto questo, ci tengo a ringraziare Massimo Algarotti per aver impresso su carta questa meravigliosa storia, che per quanto difficile da digerire, resta comunque meravigliosa.

Elena Daniela P.


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